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Spinte da ristrettezze economiche e da eccessiva concentrazione di popolazione, intere comunità Walser sin dal 1200 lasciarono la terra d’origine vallese e, attraverso dure e spesso inesplorate vie alpine, si crearono nuove patrie in un’ampia zona che va dalla Savoia francese al Vorarlberg austriaco, quasi sempre ad altitudini superiori ai 1000 metri. Di origine tipicamente contadina i Walser furono portatori di un rigido ordinamento di diritto. Le dure condizioni ambientali li costrinsero ad integrare sempre più la loro attività rurale con quella di allevatori che consentiva loro di entrare in commercio con le popolazioni più vicine, offrendo giovani capi di bestiame, oltre agli svariati prodotti della lavorazione del latte.Si tratta di un popolo nel quale sono altissimi il valore della libertà, dell’indipendenza e il senso dell’avventura; anche quando il prezzo da pagare è altissimo: un destino di grandi fatiche, di durissimo lavoro e la convivenza con una natura dominata da ghiacciai e rocce.In Italia i principali insediamenti Walser sono St. Jacques, Gressoney, Rima, Rimella, Alagna, Riva Valdobbia, Macugnaga, Ornavasso, Migiandone, Sempione, Ausone, Salecchio, Agaro e Formazza.La loro vita, sviluppatasi per molti secoli in villaggi isolati, con rarissimi contatti con altre popolazioni, ha fatto si che le caratteristiche razziali della stirpe vallese si siano conservate in loro in maniera pressoché integra. Le differenze economiche e razziali contrapposero le popolazioni Walser con quelle autoctone al punto che i giovani che non trovavano una sposa presso il proprio insediamento, andavano a cercarsela in altre comunità Walser, spingendosi addirittura nel Vallese.Con l’antica patria i Walser mantennero sempre un collegamento. Attraverso i passi di montagna erano numerosi i gruppi che si spostavano nel Vallese o per commerci per visitare i lontani parenti.A testimonianza della radicata identità etnica, si possono osservare le sepolture dei Walser accuratamente tenute separate da quelle dei non nativi del paese (Wailschu).

Il bisogno di risolvere i problemi in maniera autarchica, spinse i Walser ad organizzarsi per la costruzione di tutti i manufatti necessari direttamente presso il villaggio. Il calzolaio, ad esempio, era ospitato, una volta all’anno, direttamente nella casa dove rimaneva in pensione il tempo necessario per provvedere alle scarpe di tutta la famiglia. Il corredo nuziale era preparato, anno dopo anno, direttamente dalle fanciulle.

La necessità di garantirsi un’alimentazione autonoma (latte, formaggi, carne salata ed essicata all’aria) ed il foraggio per il bestiame, li costrinsero ad una durissima opera di dissodamento del terreno, utilizzando scure e fuoco, ed ottenendo delle radure coltivabili chiamate macchie (Fleche).

I walser furono portatori di una cultura del legno molto più avanzata e raffinata di quella delle popolazioni originarie. Ne è testimonianza la costruzione delle case, dei granai, delle stalle e dei fienili dove il legno è impiegato con rara perizia; a titolo di esempio si può osservare il tipico incastro angolare che dava solidità all’intera costruzione. Inoltre ci sono giunti numerosi reperti di mobili, culle e attrezzi funzionali ed artisticamente decorati.

La durezza della vita, i lunghi periodi di assoluto isolamento dovuto alle abbondanti nevicate, la necessità di trovare adeguate soluzioni di sopravvivenza,  hanno  favorito  nei  Walser  l’ingegno,  talché  si  può  osservare, in ugual periodo, uno sviluppo tecnologico superiore a quello delle popolazioni che vivevano ad altitudini inferiori, nelle valli.

Per preservare i granai dai roditori, la costruzione in legno veniva fatta poggiare su funghi di pietra.

Il gruppo Walser manifesta una grande  coesione sociale: la vita del singolo risulta impensabile senza la famiglia ela famiglia non è concepibile senza la comunità del villaggio. L’aiuto tra individuo e individuo è spontaneo in ogni occasione.

Particolarmente significativa di questo spirito solidaristico è l’antica tradizione della cottura del pane. Il raccolto delle granaglie che i Walser riuscivano ad effettuare copriva spesso a malapena un quarto del fabbisogno vitale; il rimanente doveva essere acquistato dalle popolazioni delle valli.

Il costo di questo alimento era reso ancor più caro giacché l’accensione del forno per la cottura del pane, data la bassissima temperatura ambientale, richiedeva una grande spesa di legna ed energie. Per tutto ciò i Walser cuocevano una sola volta all’anno il pane necessario al villaggio. L’incarico era dato a turno ad una famiglia che vi provvedeva, aiutata da tutti, in un rito di diversi giorni che aveva, al tempo stesso, il sapore del sacro e la gioia della festa.

Ai bimbi venivano regalati dei piccoli panini; si usava farli in due modi diversi e allusivi: quelli dei maschietti avevano una forma allungata e quelli per le femmine una forma tondeggiante.

Il pane si lasciava quindi raffermare e diventava duro come pietra. Per mangiarlo, veniva spezzettato con uno speciale coltello a leva fissato in uno speciale tagliere e poi ammorbidito in brodo o latte.

Per antica consuetudine ogni famiglia metteva a disposizione delle persone, per diversi giorni per effettuare i lavori di comandata, cioè quelli di interesse pubblico, ovviamente non retribuiti.

Il tempo, per i Walser, era scandito da date che univano le scadenze lavorative con le stagioni e le festività religiose. Ogni periodo dell’anno veniva sacralizzato con feste, preghiere e processioni. Le credenze, religiose e non, riempivano ogni istante della vita nei villaggi Walser. Sotto il pagliericcio dei neonati veniva messo un coltellaccio per allontanare i folletti. Molti erano i segnali ritenuti di morte: il gocciolare in casa senza che fuori piova, la volpe che ulula o che attraversa la strada volgendo il muso, una porta che si apre d’improvviso, un bagliore senza che nulla bruci o un improvviso colpo di vento in una giornata assolutamente tranquilla.

La religione della civiltà Walser è quella cattolica, tramandata di generazione in generazione, anche nei secoli che la videro segregata in villaggi ad alta quota, senza collegamenti con la Chiesa.

La vita familiare era organizzata secondo le esigenze pratiche, le condizioni ambientali e le rigide tradizioni. I matrimoni, soprattutto presso i villaggi più poveri, venivano celebrati circa a quarant’anni.

Difficilmente l’uomo riusciva prima a guadagnare i soldi necessari a costruire una nuova famiglia. Il giorno delle nozze era la festa più gioiosa, alla quale partecipavano tutti i componenti del villaggio. Dopo la cerimonia in chiesa, per gli sposi si presentava un lungo e tortuoso percorso: ogni via veniva interrotta con improvvisate barricate e loro dovevano pagare il passaggio con confetti e fazzoletti di cotone.

Tutt’attorno scoppi di mortaretti, fucilate, gruppi di giovani mascherati e rulli di tamburi. Solo alla fine di questo lungo percorso gli sposi potevano raggiungere la casa per il pranzo di nozze.

Il centro della vita casalinga, nei mesi freddi, era la stube, il locale principale nel quale troneggiava la grande stufa. Essa veniva alimentata nel locale attiguo, e fungeva alle funzioni di riscaldamento e di cottura dei cibi. Il locale era generalmente ampio e basso; li si mangiava, si discuteva e si raccontavano le storie ed anche si dormiva.

La popolazione si divideva nelle occupazioni agricole ed in quelle d’allevamento. I giovani maschi erano sovente spinti ad emigrare, fino circa ai quarant’anni, per procurarsi, con il lavoro, quel minimo di risorse che la povera vita del villaggio non poteva offrire loro.

La terra era quindi coltivata prevalentemente dagli anziani e dalle donne, alle quali era anche affidata la cura della casa e della prole. Gli emigranti, nei diversi periodi storici, svolgevano lavori di scalpellino, di muratore, di taverniere, di garzone di bottega, di raccoglitore di resina, di peltraio, di stagnino, di fabbricante di tinozze e di recipienti di legno e di pasticcere. Si ha notizia che nel ‘700 degli emigranti Walser aprirono a Lione dei negozi di pasticceria che ottennero rinomanza e clientele ricche e raffinate.


 Le leggende Walser

 

Presso la cultura Walser sono presenti numerose leggende, storie frammiste di ricordi, fantasie e tradizioni che i vecchi raccontavano alle famiglia raccolta intorno alla “stube”, nelle lunghe serate invernali.

 

Il siero dei poveri

Gli gnomi, saggi conoscitori del mondo della natura, ben più degli uomini, si racconta, avevano insegnato agli antichi Walser l’arte di lavorare il latte per fare il burro e i formaggi, ma non l’utilizzazione del siero che avanzava. I tempi erano infatti estremamente duri e grande la miseria; se la gente avesse conosciuto oltre allo sfruttamento di tutti i derivati del latte anche l’utilizzazione del siero, non si sarebbe giunti all’abitudine di regalarlo ai poveri, ed i poveri non avrebbero potuto dissetarsi neppure con quel siero. Si narra ancora che questa tradizionale usanza fu il motivo per cui Macugnaga fu salvata dalle peste che invece falcidiò le popolazioni del vicino Vallese. Quando lo spettro della peste si affacciò dal Monte Moro e vide lo spettacolo dei macugnaghesi che donavano il siero, ed il pane, ai poveri, con un ghigno girò la sua torva faccia e tornò sui suoi passi.

 

La conta dei morti

Il primo di novembre si dice che i morti di Macugnaga hanno un momento di sollievo dalle pene che stanno scontando e ritornano nei luoghi dove hanno vissuto. Ma prima di entrare nelle case che furono le loro, si riuniscono nella Chiesa Vecchia, nel cimitero, per assistere alle funzioni che vengono celebrate in loro suffragio.

Dopo la funzione, gli spiriti si soffermano ancora in chiesa per contare quanti, dei vivi appena usciti, morranno nell’anno successivo.

Si racconta che un anno un uomo di mezza età, pieno di curiosità, volle a tutti i costi nascondersi in chiesa, dopo la funzione, per assistere alla “conta dei morti”. Si appostò dietro l’altare e, con cuore trepidante, seguì il lungo elenco dei nomi, sempre più contento di non ascoltare il proprio. Alla fine della conta la sua gioia fu grande: il suo nome non era stato pronunciato, ma in quel momento i morti dissero: “dovrà venire con noi anche quello che sta ascoltando dietro l’altare”. E difatti, entro l’anno, l’uomo morì.

 

La prima messa

Presso le leggende Walser è ferma la convinzione che le anime dei morti debbano scontare le pene per i peccati commessi in vita rimanendo imprigionate dentro i ghiacci della montagna.

Si narra che una persona pia, vista l’impossibilità di convincere uno scettico che la vita continuava dopo la morte, lo condusse con sé sino al ghiacciaio del Monte Rosa. Lo spettacolo fu tremendo: un enorme numero di individui era intrappolato, chi completamente, che a mezzo busto, chi solo nelle gambe ed uno aveva bloccato dal ghiaccio solo un alluce. L’uomo disse a quest’anima: “Allora tu hai quasi finito il purgatorio?” Lei rispose: “Ora ti spiegherò quando sarò libera. In questo momento da un faggio sta cadendo in terra un seme; da questo seme nascerà un albero; con il legno di quest’albero sarà costruita una culla; su questa culla sarà battezzato un bambino; questo bambino da grande si farà prete. Ebbene, il giorno della sua prima messa, io sarò libera”.

 

La Valle Perduta

In ogni villaggio sgorga sempre una sorgente di acqua proveniente dalla valle perduta, la terra d’origine. Di generazione in generazione questa valle viene descritta come un paradiso, verdeggiante pieno di pascoli e boschi, nascosto dalle nevi e dai ghiacci. Da sette secoli questa leggenda aiuta le popolazioni Walser ad affrontare l’asprezza della vita nel miraggio di poter raggiungere, un giorno, la fertile, meravigliosa, Valle Perduta.

 

Il serpente e il tesoro

E’ convinzione presso i Walser che chiunque abbia nascosto in vita un tesoro, dopo la morte, finché questo non venga ritrovato, il suo spirito è destinato ad aggirarsi senza pace nei pressi del nascondiglio.

Così avvenne allo spirito di una ragazza che aveva nascosto, prima di morire, un bel gruzzolo di monete d’oro. Apparve in sogno ad un conoscente e gli disse: “Il mio spirito è senza pace e non potrà essere libero finché non sarà trovato il tesoro che ho nascosto”. E spiegò il punto dove si trovavano le monete.

“Ma bisogna superare una prova: sopra il luogo del tesoro vi è un serpente; chi vorrà impadronirsi delle monete, dovrà prima baciare tre volte il serpente”.

L’uomo che aveva avuto la rivelazione in sogno, superate le prime titubanze, si recò sul posto indicato. Vide subito il serpente. Si fece coraggio e lo baciò una volta, due volte e, mentre si accingeva a dare il terzo bacio, sentì tintinnare tra i sassi le monete d’oro.

 

(logo e fotografie di www.monterosa4000.it – testo da “Agenda del Turista” – www.agendadelturista.it)

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